Quando una fabbrica fallisce chi ha la peggio è sempre il lavoratore. Egli si sente come pezzo di un ingranaggio. Infatti, quando la macchina si guasta, qualche pezzo si ricupera, ma tutti gli altri sono rottamati. Quante volte capita così!

Nel mondo del lavoro non sempre è scontato che di fronte alla negazione dei diritti si attivi una reazione tale in grado di costruire una forte base di solidarietà nel confronto degli dipendenti. Manca ancora la consapevolezza che tutta la società, se viene meno il lavoro, essa rischia di andare verso derive difficilmente arginabili. Deve crescere la cultura del “Noi”, della prossimità, che ci fa capire che il lavoro è « chiave essenziale di tutta la questione sociale, condiziona lo sviluppo non solo economico, ma anche culturale e morale delle persone, della famiglia e della società» ( Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n.269).

Quando manca il lavoro cresce il malcontento e si sfalda il tessuto collettivo. Guai a sottovalutare la giusta collera di chi si sente escluso. In un articolo di Barbara Spinelli, apparso qualche anno fa su La Stampa (che avevo ritagliato e messo da parte), essa descrive cosi la collera di chi vede spezzarsi, uno dopo l’altro, i fili che dovrebbero tener stretta la collettività: «Il filo che lega una generazione alla successiva, il filo che lega la persona al sindacato chiamato a rappresentarla, il filo che dovrebbe annodare le aspirazioni di tutti coloro che dell’agire economico sono protagonisti: lavoratori che producono, cittadini che consumano il prodotto e azionisti delle imprese produttive. Tutti questi fili sono oggi rotti, siamo davanti ad una rete che sbrindella e non tiene più». (Spinelli B. La rabbia dei precari. Italia, Francia, in La Stampa, 21 marzo 2006). Di questo dobbiamo tenerne conto e anche temere.

C’è un altro punto che mi pare necessario, anzi urgente, sottolineare. È questo: occorre dire che in ogni ambito, ma soprattutto nel mondo del lavoro, c’è una soglia d’intollerabilità sotto la quale è iniquo scendere. Il lavoro non può essere ridotto a merce (la dignità del lavoro è data dallo stesso lavoratore che lo compie); il lavoratore non può essere considerato solo come un portatore d’interessi finché tutto funziona bene all’interno dell’azienda. Ma quando l’azienda va male viene scartato, rischiando di essere privo degli ammortizzatori che permettono di sopravvivere a lui e alla sua famiglia.

È doveroso far crescere nella società un “Noi” che ci faccia sentire tutti solidali di fronte a quella «calamità sociale» che è la disoccupazione. Deve crescere quella cultura che ci fa indignare di fronte a fatti che dobbiamo qualificare come intollerabili come quando, nel caso di un fallimento di una azienda, i lavoratori sono lasciati in balia di sé stessi. Ripeto le parole dei sindacalisti: « Non possono lasciare lavoratori e famiglie dall’oggi al domani senza stipendi» (C. Maccari). «Siamo di fronte ad un bagno di sangue per il lavoratori e per le loro famiglie» (F. Mandarano).

Intanto 142 lavoratori della Pmt vivono da disoccupati. Qui non c’è solo il fallimento di una fabbrica, ma qualcosa di ben più grave. La negazione della dignità del lavoratore e dei suoi diritti fondamentali. Anche questa dolorosa vicenda che tocca il nostro territorio, ci deve lasciare questa lezione: in ogni decisione, soprattutto in quella dolorosa di un fallimento, non ci si può limitare esclusivamente a criteri di natura finanziaria. I lavoratori sono il patrimonio più prezioso.

Perché ci si dimentica di questo quando c’è un rovescio di fortuna? Spesso, fatte le debite eccezioni, il datore di lavoro non rischia la povertà per sé e per la sua famiglia. Il lavoratore sì, sempre!

+ Pier Giorgio Debernardi