Si è conclusa sabato 30 luglio la 58ma sessione di formazione ecumenica del Sae che ha radunato 190 cristiane e cristiani di confessione

Con il pranzo si è conclusa sabato 30 luglio la 58ma sessione di formazione ecumenica del Sae che ha radunato 190 cristiane e cristiani di confessione avventista, anglicana, battista, cattolica, metodista, ortodossa, riformata, valdese, e alcune di fede ebraica. Erano laiche e laici, presbiteri, pastore e pastori, teologhe e teologi, docenti, presidi, studenti, tre seminaristi, due vescovi, una vescova, alcune consacrate, membri di associazioni come l’Azione cattolica, la Federazione giovanile evangelica italiana, le Amicizie ebraico-cristiane, il Coordinamento teologhe italiane, il movimento dei Focolari. Una trentina sono state persone che hanno partecipato per la prima volta all’esperienza. Alla Domus Pacis di Assisi la settimana è trascorsa nel dialogo, nello studio, nelle liturgie; la condivisione è stato il filo rosso della sessione. Il gruppo dei partecipanti era connesso idealmente con coloro che, pur interessati, non hanno potuto essere ad Assisi, e concretamente grazie alle nuove tecnologie che hanno permesso anche un’interazione in diretta.

La sessione, la prima organizzata dal nuovo comitato esecutivo di cui fa parte la neo presidente, la valdese Erica Sfredda, ha ottenuto nell’assemblea finale dei partecipanti che si è svolta venerdì sera riscontri e commenti positivi. È stato sottolineato in particolare il clima di fraternità, l’orizzontalità delle relazioni, l’informalità, la bellezza della condivisione di preghiere delle diverse tradizioni. L’assemblea ha anche mostrato la vivacità del laboratorio dei bambini e delle bambine che hanno raccontato con parole e cartelloni le loro modalità di svolgimento del tema della sessione. Nel pomeriggio erano emerse le risonanze degli altri laboratori, che hanno lanciato delle parole e dei verbi che arricchiscono il lascito di questa sessione consegnato alle comunità, come “rivalutare il corpo nella preghiera personale e liturgica”, “superare stili androcentrici nella chiesa”, “uscire dalla mentalità sostituzionista rispetto a Israele”.

Nelle conclusioni di sabato, Simone Morandini, membro del Comitato esecutivo, ha evidenziato alcuni aspetti del cammino percorso. Ascoltando il gemito della terra, di cui l’umanità fa parte, i partecipanti hanno compreso l’ascolto come qualcosa di attivo; è stato un ascolto con tutti i sensi che ha intrecciato i piccoli cammini e quello internazionale, che è entrato delicatamente nella terra sacra dell’alterità o si è lasciato attraversare e sorprendere da essa. «Nell’ascolto reciproco e nel discernimento di quanto inteso si coglie la voce dello Spirito che risuona nei gemiti» ha detto il teologo che in questa voce ha intravisto i segni di una speranza, segni che giungono su vie ed in forma talvolta inattese e che alla luce del Vangelo sono luce per le vite dei credenti. La speranza, ha continuato Morandini, è una realtà che si coltiva al plurale, è una dinamica comunitaria, ecclesiale. La si coglie e la si esprime insieme, nell’attenzione rispettosa alle esigenze le une degli altri, ai rispettivi stili di pensiero, di celebrazione, di vita. Un’altra scoperta fatta alla sessione è stata l’importanza di un paradigma intergenerazionale: essere tutti assieme discepoli e maestri, assumere una postura di apprendimento reciproca, essere cercatori di speranza insieme. Questa prospettiva richiede di fare un cambio di passo e nello stesso tempo di custodire i doni ricevuti dalle generazioni e dalle tradizioni precedenti.

«Sono triste perché mi dispiace lasciarvi e terminare questa esperienza di cui ringrazio ognuna e ognuno di voi – ha detto Erica Sfredda nel suo intervento conclusivo rivolgendosi all’assemblea -. In questo auditorium è risuonata la parola potente e profonda “benedetto l’uomo la cui fiducia è il Signore”. Eravamo arrivati qui con i nostri fardelli, eppure ci siamo messi in gioco per vivere insieme un’esperienza di comunione in mezzo a uomini e donne che vivono e pregano in modo diverso, ma che abbiamo potuto ascoltare e con i quali abbiamo potuto discutere, condividere i pasti, sentire che abbiamo molto in comune. Siamo chiamati insieme a costruire una nuova storia che si nutra della speranza di poter camminare insieme curando il dolore, le ferite, le tragedie dei secoli passati». Questo è stato reso possibile, ha continuato Sfredda, grazie a una chiamata del Signore. «In questi giorni abbiamo capito che la crisi non è solo negatività ma ci sprona alla conversione al Signore, ci restituisce la forza di vivere e la fiducia in Dio. Abbiamo sentito che siamo confusi, fragili, ansiosi e sperimentiamo una fede nuda che può diventare un’opportunità».

La presidente del Sae ha osservato che lo svuotarsi delle chiese, messe alla prova da questo momento storico, quasi prive di capacità generativa, «ci chiama al cambiamento, ci chiede di fare silenzio e di ascoltare la voce di Dio. Perché è proprio il Signore che ci strappa dalla disperazione e dal lamento e ci fa guardare il mondo con i suoi occhi. In questa luce improvvisamente possiamo capire cosa significhi costruire il presente a partire dal futuro. E dopo esserci riconosciuti nelle obiezioni di Mosè alla chiamata di Dio, che riconosciamo e sentiamo vere, abbiamo sentito nostre anche le motivazioni di Mosè a partire. E ci siamo messi anche noi in cammino insieme, ognuno con il suo zaino, condividendo, mantenendo le nostre individualità e sentendo la ricchezza umana, spirituale, teologica, liturgica di chi ci stava accanto. Abbiamo capito che entrare in relazione tra noi significava anche entrare in relazione con Dio e abbiamo fatta nostra una profonda verità: c’è un riconoscimento, una chiamata prima che una conoscenza, perché Dio ci chiama a prescindere da quello che abbiamo scritto e detto di lui. E dunque possiamo accogliere la sfida di diventare catalizzatori di speranza, testimoni nel mondo attraverso le nostre vite di una speranza che non delude. Quindi quello di oggi non è un addio ma è un arrivederci. Ci lasciamo con un po’ di tristezza ma siamo anche consapevoli della gioia che ci portiamo a casa e sappiamo che il nostro compito è testimoniare nelle nostre vite, nelle nostre comunità e chiese quello che abbiamo ricevuto e di cui ci facciamo a nostra volta donatori».